mercoledì 19 giugno 2013

Fabrizio De Andrè

L'autore di questo articolo, oltre ad amare e conoscere nel profondo Fabrizio De André, penso che possegga una grande sensibilità  e ricchezza interiore.

Se qualcuno volesse dipingerlo come un messo del Signore, potrebbe anche avere dei validi argomenti per sostenerlo. Analizzando la sua produzione artistica infatti, volendo partire dai testi degli album pubblicati, si nota facilmente che la prima canzone del primo album e l’ultima traccia dell’ultimo, sono due preghiere. Può sembrare una coincidenza incredibile, ma è certo che la sua produzione inizia con “Preghiera in Gennaio” (Volume I, anno 1966 [1] ) e si chiude esattamente trent’anni dopo con “Smisurata Preghiera” (Anime Salve, anno 1996). La prima dedicata al suo amico e conterraneo Luigi Tenco; l’altra testamento di chi viaggia in direzione ostinata e contraria. Compreso lui.

Non è questa la sede per scoprire il perché i testi di Fabrizio De André possono essere considerati Poesia. Perché è finito nelle antologie scolastiche, perché usa una elevata quantità di figure retoriche, perché suscita sentimenti e perché non svela subito e non tutto il mistero che c’è dietro le sue parole. Non ci spiega e non ci dà semplicemente un sentimento, ce lo porge ma ce lo lascia scoprire con maestria, ci invita a riflettere. Ma non sono qui per convincere il lettore che ancora non lo sia, che Fabrizio va annoverato tra i grandi poeti italiani, oltreché in quello dei cantautori[2]. Non è questo l’articolo per esaltare le sue doti canore, musicali o ancora la straordinaria persona che era, l’articolo in cui si ricorda semplicemente la sua vita o la sua produzione artistica. Vogliamo ricordare a dieci anni dalla sua scomparsa quanto può essere attuale il suo messaggio, la sua poetica e riscoprire quanto possa essere ancora valida e presa ad esempio dalle nuove generazioni che non hanno potuto per ragioni anagrafiche conoscere Fabrizio.

La produzione poetica di Fabrizio De André è incentrata per la verità quasi esclusivamente, come tutti sappiamo, su temi sociali: gli ultimi, i diseredati, i suicidi, i drogati, gli emarginati in genere. A 10 anni di distanza dalla sua scomparsa, avvenuta l’11 gennaio del 1999, cosa c’è rimasto, in campo artistico, della sua poetica? Poco a mio parere, a dir la verità. Pochi sono riusciti a scrivere un pezzo che restituisca dignità al popolo rom come ha saputo fare “Khorakhané”, nonostante sia tema più che attuale.

Il clima culturale è cambiato, forse peggiorato, ognuno ripiega su se stesso ed ha paura. La società si è imborghesita ancor di più, avrebbe pensato Fabrizio, ed ha escluso ancor di più gli emarginati. L’intolleranza ha avuto la meglio sull’uguaglianza, i disperati sono aumentati e la loro disperazione è cresciuta a dismisura: la discriminazione trova il consenso tra molti italiani. Una guerra tra poveri. Avrebbe avuto di che scrivere Fabrizio.

Avrebbe trovato perdono per tutti, lui che era intriso di cristianità e odio per queste gerarchie ecclesiastiche, avrebbe fatto un sorriso da pescatore addormentato restituendo al discriminato e al peccatore un’umanità romantica.

Fabrizio è stato un pilastro della canzone italiana, nella scelta dei temi e nel modo in cui trattarli. Una delle sue canzoni più famose e più belle parla di una bambina, una graziosa, una puttana, non solo azzardando l’accostamento di questi tre termini solitamente inavvicinabili, ma sottolineando le virtù di questo insolito personaggio e ricordando che dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fiori. Parole e accostamenti che sarebbero stati considerati dissacranti e volgari, in “Via del Campo” diventano poesia armoniosa e gradevole tanto da poter essere passate dalle radio da supermercato. “Il Pescatore” è studiato sui testi d’antologia scolastica. Eppure narra di un uomo che incrocia casualmente un assassino affamato ed assetato ma che, ignorando il dettaglio dei problemi con la legge, dà da bere all’assetato e sfama l’affamato. Un nuovo Cristo pescatore d’anime che versa il vino e spezza il pane e che perdona anche gli assassini. Aiuta chi va da lui con occhi enormi di paura e non chi si presenta con le armi. Questa è la politica di De André, anarchica, sovversiva, disobbediente alla legge, trasformata in poesia. Un messaggio enorme che attraversa tutti i suoi testi, dal suicida Michè al soldato Piero, fino a Cafiero Pasquale di Don Raffaè. Tutti i personaggi e tutte le situazioni.

Ed è proprio lui che col suo marchio speciale di speciale disperazione, consegna alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità. È proprio lui che a distanza di tanti anni combatte una battaglia non ancora vinta del riscatto sociale: la cattiva strada percorsa durante tutto l’arco della sua carriera artistica come della sua vita privata. Sulla cattiva strada, quella di “Bocca di Rosa”, quella dei personaggi della “Città Vecchia”, quella dell’impiegato alienato come quella del Cristo della “Buona Novella”; sulla cattiva strada di “Sally” come su quella di “Princesa” c’è amore un po’ per tutti, perché in fin dei conti – ed questo è il messaggio deandreano – anche se non sono gigli, personaggi buoni, puliti, borghesi, son pur sempre persone umane, figli vittime di questo mondo.

La poesia di De André ha più linguaggi, come quella dantesca, che poggiano su diversi livelli. Il linguaggio semplice e orecchiabile della canzone e della bella voce, il significato letterale del testo e infine il significato più nascosto da svelare e da interpretare. In certi casi il testo letterale perde quasi significato e non possiamo far altro che arrovellarci sul significato metaforico: la scimmia del quarto Reich, la pantomima delle finte e limitate democrazie occidentali che imprigionano l’individuo e lo schiavizzano con una facciata di libertà e liberismo, ballava la polka sopra il muro, danzava sulle ceneri del mondo comunista non accorgendosi che mentre si arrampicava, mentre vinceva, tutti le avevano visto il culo, tutti avevano visto le sue cose nascoste, tutti si erano accorti dei difetti di questo carro festoso del vincitore sul quale però tutti non potevano far altro che salire. Scoprire passo passo i significati che stanno dietro ad ogni strofa, rende la poesia ancora più grande e più magica perché abbiamo dovuto usare l’intelletto per svelarne il significato, il quale una volta svelato appaga appieno il nostro ego ad ogni riascolto.

Fabrizio tratta un tema alto ed ha un linguaggio per tutti. Ci narra le difficili vite dei semplici in modo umano. Molti cantautori, soprattutto negli ultimi tempi, sfruttano la loro voce potente per battere il tamburo, per protestare e smascherare i difetti e le contraddizioni della società, pagando un ovvio dazio alla poetica di De André (non ultimo Frankie Hi Nrg a Sanremo 2008 ha portato “Rivoluzione”, il cui intro ripropone esplicitamente il fischio iniziale della “Canzone del Maggio”); ma la maestria con cui Fabrizio ci descrive poetando il suo amore per il pensiero libero, stimolandolo anche in noi con questa sua abilità disarmante, è di sicuro la dote che i suoi ascoltatori più “colti” apprezzano maggiormente e che i suoi successori più meritevoli riproducono raramente.


                                                                   Marco Lucci